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SOCIETA’ DI CAPITALI: VERSAMENTO IN CONTO CAPITALE E DIRITTO ALLA RESTITUZIONE. Cass. Civ., Sez. I, Ord. n. 33957 del 17.11.2022

 

Con la recente Ordinanza n. 33957 del 17.11.2022 la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla differenza sussistente tra “finanziamento soci” e “versamento in conto capitale” nelle società di capitali, con particolare riguardo alle conseguenze sul diritto alla restituzione delle somme versate dal socio.

Il caso di specie

Con scrittura privata del 2006 una S.p.a., socia di una S.r.l., ha ceduto all’Amministratore Unico della S.r.l. medesima il credito vantato nei confronti di quest’ultima “a titolo di finanziamento soci.

Nella stessa scrittura l’Amministratore ha altresì prestato espressa garanzia circa l’esistenza del credito.

Successivamente, l’Amministratore ha convenuto la S.p.a. dinanzi al Tribunale di Rimini, chiedendo di accertare i) l’inesistenza del credito, che avrebbe dovuto essere qualificato come “versamento in conto capitale” (quindi non necessariamente soggetto a restituzione), e non come “finanziamento soci”, e conseguentemente ii) la nullità del contratto di cessione di credito.

Mentre il Tribunale di Rimini ha rigettato le suddette domande, la Corte d’Appello di Bologna, in totale riforma della Sentenza di primo grado, ha accolto la tesi dell’Amministratore, accertando la nullità, per inesistenza dell’oggetto, del contratto di cessione di credito.

In particolare, la Corte d’Appello, premesso che la garanzia di esistenza del credito prestata dall’Amministratore non costituiva confessione stragiudiziale ex art. 2730 c.c. poiché proveniente da quest’ultimo in qualità di legale rappresentante della S.r.l. (estranea al giudizio), e non in proprio, ha rilevato che in sede assembleare il versamento effettuato dalla S.p.a. era stato espressamente qualificato come “versamento in conto capitale” nonché registrato nel bilancio tra le “altre riserve” (concorrenti alla formazione del patrimonio netto), e non come debito.

Pertanto, il versamento non avrebbe potuto essere considerato un “finanziamento soci”, con la conseguenza che la S.p.a. non aveva diritto alla restituzione della somma ed il relativo contratto di cessione del credito era nullo per inesistenza del credito.

La S.p.a. ha quindi proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta decisione.

I profili giuridici

Occorre innanzitutto rimarcare le differenze tra “finanziamento soci” e “versamento in conto capitale”.

I “finanziamenti soci” sono veri e propri contratti di mutuo, ai sensi dell’art. 1813 c.c., tra la società e il socio, ed il relativo importo viene iscritto a bilancio al passivo dello stato patrimoniale tra i debiti verso i soci, con la conseguenza che il denaro deve essere restituito al socio che ha effettuato il pagamento (anche in caso di cessione della quota di partecipazione).

Al contrario, i “versamenti in conto capitale” non comportano il diritto del socio al rimborso, vengono iscritti a bilancio nel passivo dello stato patrimoniale tra le riserve, che l’assemblea può discrezionalmente utilizzare per eliminare le perdite o per aumentare gratuitamente il capitale: il socio non vanta quindi il diritto soggettivo alla restituzione di tali versamenti.

Al riguardo, la Suprema Corte ha precisato che laddove manchi una chiara specificazione del titolo sulla base del quale il socio ha effettuato la dazione di danaro (finanziamento, versamento in conto capitale o in conto futuro, aumento di capitale), occorre fare riferimento alla terminologia adottata nel bilancio, che è peraltro soggetto all’approvazione dei soci.

Per quanto concerne i versamenti in conto capitale, la Corte di Cassazione, sulla base di un consolidato orientamento, ha stabilito che “affermare che il diritto alla restituzione sussiste all’esito della liquidazione sociale ove vi sia un residuo da distribuire fra i soci, all’esito del pagamento di tutti i creditori, significa, allora, null’altro che assimilare in pieno tali apporti ai conferimenti ed al capitale di rischio: anch’esso, invero, verrà restituito all’esito della liquidazione dell’impresa collettiva. Vi è, per essi, una postergazione della restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali, esattamente come avviene per i conferimenti operati dal socio: è mera eventualità, dipendente dalla condizione in cui verrà a trovarsi il patrimonio sociale al momento della liquidazione della società ed alla possibilità che in tale patrimonio residuino valori sufficienti al rimborso dopo l’integrale soddisfacimento dei creditori” (Cass. n. 16049/2015).

La decisione della Suprema Corte

Nel caso di specie, con il primo motivo di ricorso (accolto dalla Corte di Cassazione), la S.p.a. ha dedotto la violazione ovvero falsa applicazione di norme in relazione agli artt. 1266 (obbligo di garanzia del cedente), 1325 n. 3 (requisiti del contratto, con riferimento all’oggetto) e 1418 (cause di nullità del contratto) c.c..

Nello specifico, la ricorrente ha rilevato che, anche qualificando il proprio versamento di denaro come “conferimento in conto capitale”, il contratto di cessione di tale (inesistente) credito non sarebbe stato nullo, poiché la norma sulla garanzia di esistenza del credito di cui all’art. 1266 c.c. (“Quando la cessione è a titolo onerosoil cedente è tenuto a garantire l’esistenza del credito al tempo della cessione”) costituisce eccezione alla regola generale secondo cui l’inesistenza dell’oggetto dell’obbligazione ne determina la nullità.

Nell’Ordinanza in commento, e posto che la delibera assembleare affermava chiaramente che il versamento fosse “in conto capitale”, la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la qualificazione in tal senso effettuata dalla Corte d’Appello, ed ha quindi confermato l’inesistenza del credito.

La Suprema Corte ha però negato che da tale premessa conseguisse la nullità della scrittura privata del credito inesistente.

Infatti, secondo la costante interpretazione della Suprema Corte(in deroga alla disciplina di cui agli artt. 1325, n. 3, 1346 e 1418, comma 2, c.c.) l’art. 1266 c.c. pone a carico del cedente un’obbligazione di “garanzia”, con la conseguenza che la cessione di un credito inesistente è valida e che il cessionario è tenuto al pagamento del prezzo, che non è quindi indebito (Cass. n. 16049/2018).

Pertanto, la Suprema Corte ha accolto il ricorso sancendo il seguente motivo di diritto:

Il versamento di danaro fatto a società di capitali dal suo socio “in conto capitale” è assimilabile ai conferimenti e al capitale di rischio della società ed entra a far parte del suo patrimonio, sì che esso non determina la nascita di un credito del socio verso la società, essendo la sua restituzione al conferente meramente eventuale, in quanto dipendente dalla condizione in cui verrà a trovarsi il patrimonio sociale al momento della liquidazione della società e alla possibilità che in tale patrimonio residuino valori sufficienti al rimborso dopo l’integrale soddisfacimento dei creditori sociali. Il contratto che ha per oggetto la cessione, a titolo oneroso, di tale inesistente credito verso la società, dal suo socio stipulato con un terzo, non è però nullo per mancanza del relativo oggetto, bensì determina l’attribuzione al cessionario della garanzia prevista dall’art. 1266 c.c., comma 1, recante disposizione di diritto speciale, derogatoria della disciplina legale della nullità del contratto per inesistenza del relativo oggetto; con la conseguenza che la cessione è valida, sì che il cessionario è tenuto al pagamento del prezzo che non diviene indebito ed è, al contempo, attributario della garanzia di cui al citato articolo del codice civile”.

In conclusione, il socio che effettua un “versamento in conto capitale” non vanta il diritto alla restituzione delle somme, ma il contratto con cui il relativo inesistente credito è ceduto è valido in forza della garanzia prevista dalla norma speciale di cui all’art. 1266, comma 1, c.c. ed il cessionario è obbligato a corrispondere il prezzo.

 

 

 

 

Studio Legale DAL PIAZ

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