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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE RAPPORTI TRA PROCEDIMENTO PENALE E PROCEDIMENTO DISCIPLINARE

LICENZIAMENTO PER FALSA DICHIARAZIONE

EX ART. 55 QUATER D.LGS. 165/2001

 

LA DOMANDA

Di fronte al medesimo fatto giuridico, procedimento penale e procedimento disciplinare possono concludersi diversamente?

Con quali conseguenze?

 

 

Nel caso in esame, un dipendente di una Pubblica Amministrazione è stato licenziato senza preavviso in quanto accusato di aver leso il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro in seguito a condotta ritenuta intenzionale e negligente.

Secondo la ricostruzione dell’Amministrazione, tale dipendente avrebbe volontariamente sottoscritto una dichiarazione sostitutiva di certificazione, nella quale attestava di non aver mai riportato condanne penali, quantunque avesse precedentemente subito una condanna penale definitiva.

Tuttavia, va sottolineato che il dipendente, presso la stessa Amministrazione, aveva precedentemente scontato la pena relativa a tale condanna non dichiarata nell’anzidetta certificazione.

 

La condotta contestata al lavoratore integrerebbe, secondo l’Amministrazione, l’illecito disciplinare di cui all’art. 55 quater comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 165/2001; inoltre, in seguito a segnalazione del datore di lavoro, è stato instaurato un procedimento penale, nei confronti del lavoratore, per il reato di cui all’art. 483 c.p..

Stante la pendenza del procedimento penale, l’Amministrazione ha disposto la sospensione del procedimento disciplinare.

Nonostante i due procedimenti abbiano ad oggetto il medesimo fatto giuridico, il comportamento tenuto dal dipendente pubblico è stato valutato in modo completamente diverso.

La condotta contestata (dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante l’assenza di pregresse condanne penali), in sede penale è stata considerata non punibile in quanto valutata come falso “innocuo” non integrante gli estremi del dolo richiesti dalla fattispecie di cui all’art. 483 c.p.; quindi, il Pubblico Ministero ha adottato un decreto di archiviazione.

L’Amministrazione, invece, ha disposto il licenziamento disciplinare del lavoratore per «falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressione di carriera» di cui all’art. 55 quater, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 165/2001.

 

IL RAPPORTO TRA PROCEDIMENTO PENALE

E PROCEDIMENTO DISCIPLINARE

 

L’articolo 653 c.p.p.

 

Il problema dei rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare si pone allorquando la condotta dia luogo simultaneamente a responsabilità penale e responsabilità disciplinare.

Il codice di procedura penale del 1988 ha abbandonato il sistema della pregiudizialità penale proprio del codice del 1930 e ha rivoluzionato l’assetto dei rapporti tra giudizi.

Nella vigenza del codice del 1930, infatti, la pendenza contemporanea del procedimento penale e di quello disciplinare era impedita dall’art. 3 c.p.p., che, al comma terzo, prevedeva che il generale obbligo di sospensione previsto per i giudizi civili e amministrativi si estendesse anche «ai giudizi davanti alle giurisdizioni amministrative e ai giudizi disciplinari davanti alle pubbliche Autorità».

L’art. 653 del vigente c.p.p., rubricato efficacia della sentenza penale, regola l’incidenza del giudicato penale in sede disciplinare, attribuendo efficacia vincolante al giudicato penale nei giudizi per responsabilità disciplinare instaurato davanti alle pubbliche autorità.

Per quanto riguarda la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, in seguito all’intervento della Legge 27 marzo 2001 n. 97, l’art. 653 c.p.p. considera idonee ad acquisire efficacia vincolante nel giudizio disciplinare, oltre alle pronunce irrevocabili di assoluzione formatesi in seguito a contraddittorio dibattimentale, anche quelle emesse ad esito del giudizio abbreviato e quelle pronunciate a norma dell’art. 129, comma secondo c.p.p..

La sentenza di assoluzione ha efficacia di giudicato «quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso».

Per quanto riguarda, invece, le sentenze penali irrevocabili di condanna, disciplinate al comma 1 bis a seguito dell’intervento legislativo del 2001, la sentenza di condanna vincola l’autorità disciplinare quanto «all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illeceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso».

La giurisprudenza amministrativa ha ribadito che nel caso di sentenza penale di condanna, anche pronunciata in seguito a patteggiamento, i fatti che hanno dato luogo a tale condanna devono comunque formare oggetto di autonoma valutazione in sede disciplinare, non potendo la sentenza essere l’unico presupposto per l’applicazione del provvedimento sanzionatorio (Cons. Stato, sez. IV, 23 maggio 2001, n. 2853).

Deve escludersi, quindi, qualsiasi automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, «specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato» (Cass. Civ., sez. lavoro, 23 agosto 2016, n. 17259).

Tale disciplina risulta in linea con il disegno avente ad oggetto la ristrutturazione della Pubblica Amministrazione, il cui scopo è quello di dare pienezza ai principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost..

 

Il D.Lgs. n. 165/2001 – Testo Unico sul Pubblico Impiego

 

I rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare sono regolati, per il c.d. pubblico impiego, dall’art. 55 ter del D.Lgs. n. 165/2001.

Con tale norma, introdotta a seguito dell’emanazione del D.Lgs. n. 150/2009, è stato superato il rapporto di pregiudizialità esistente nel pubblico impiego tra i due menzionati procedimenti, prevedendo, al primo comma, «la regola generale della autonomia del processo penale e del procedimento disciplinare» (Cass. Civ., sez. lavoro, 02 gennaio 2020, n. 6). Il procedimento disciplinare, quindi, può iniziare, proseguire e terminare anche in pendenza, e indipendentemente dalla pendenza, del procedimento penale.

La Corte di Cassazione si è interrogata sul rapporto intercorrente tra procedimento penale e disciplinare e ha chiarito in diverse pronunce che «[…] la possibilità di sospendere il procedimento disciplinare in presenza di fatti di maggiore gravità e nella ricorrenza di situazioni più complesse si denota come una facoltà della Pubblica Amministrazione, nell’interesse del buon andamento di essa ed in attuazione di un canone di prudenza, che di tale principio è espressione e che è insito nei parametri di complessità di accertamento o insufficienza degli elementi disponibili cui fa riferimento la norma» (Cass. Civ., sez. lavoro, 13 maggio 2019, n. 12662). Secondo la Suprema Corte l’art. 55 ter del D.Lgs. n. 165 del 2001 risponde, quindi, all’esigenza di evitare che le violazioni disciplinari rimangano impunite per un tempo superiore a quello necessario, manifestando l’esigenza di rispettare la natura dello strumento di governo del personale.

Inoltre, la Corte ha stabilito che l’art. 55 ter del D.Lgs. n. 165 del 2001 costituisce, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419 c.c., norma imperativa, che determina «[…] la sostituzione automatica delle clausole della contrattazione collettiva eventualmente difformi, a prescindere da qualsiasi valutazione di miglior favore […]» (Cass. Civ., sez. lavoro, 02 gennaio 2020, n. 6).

Il primo comma dell’art. 55 ter, tuttavia, prosegue chiarendo che l’ufficio competente «[…] nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente […] può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale»[1], facendo in ogni caso salva la possibilità di adottare, nei confronti del dipendente, la sospensione o altri provvedimenti cautelari.

Nel caso in cui il procedimento disciplinare non sia stato sospeso e si sia concluso con l’irrogazione di una sanzione, l’ufficio competente potrà riaprire il medesimo procedimento, ad istanza di parte ed entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale, «[…] per modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale»[2], nel caso in cui quest’ultimo sia stato definito «[…] con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso […]»[3].

Qualora invece il procedimento disciplinare venga archiviato ed il procedimento penale si concluda con una sentenza irrevocabile di condanna, o se dalla stessa risulta che il fatto addebitabile al dipendente comporta la sanzione del licenziamento, e ne è stata applicata una diversa, «[…] l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale […]»[4].

Relativamente alla questione in esame, la norma di cui all’art. 53 ter D.L.gs. n. 165 del 2001 non esamina il caso in cui il procedimento penale si concluda con un decreto di archiviazione.

Nel silenzio della norma, rileva l’orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui «[…] il decreto di archiviazione emesso dal giudice penale non ha autorità di cosa giudica nel giudizio disciplinare, non essendo equiparabile ad una sentenza definitiva di assoluzione per insussistenza del fatto o per non averlo l’imputato commesso» (Cass. Civ., sez. lavoro, 28 maggio 2015, n. 11056).

 

LA FATTISPECIE

 

L’articolo 483 c.p.

 

Il dipendente è stato indagato, in sede penale, per aver commesso il delitto di cui all’art. 483 c.p. – Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico – a norma del quale:

«chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni.

Se si tratta di false attestazioni in atti dello stato civile, la reclusione non può essere inferiore a tre mesi».

Relativamente all’elemento oggettivo, tale delitto «sussiste solo qualora l’atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è stata trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati, e cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale ricevente» (Cass. Pen., 2 aprile 2014, n. 1827).

Per poter integrare tale fattispecie è necessario il dolo del soggetto che compie il falso: in particolare, «il dolo integratore del delitto di falsità ideologica è costituito dalla volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero» (Cass. Pen., 31 maggio 2012, n. 33218).

Il dolo viene escluso quando la falsità sia il risultato di una negligenza o di una leggerezza.

Il falso, inoltre, è considerato “innocuo” quando è «inidoneo a ledere l’interesse protetto dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso che l’infedele attestazione o la compiuta alterazione appaiono del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento delle finalità che con l’atto falso si intendevano raggiungere» (Cass. Pen., 23 gennaio 2008, n. 3564).

 

L’articolo 55 quater, comma 1, lett. d) D.Lgs. n. 165/2001

 

La norma prevede che nel caso di «di falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera» viene applicata la sanzione del licenziamento disciplinare senza preavviso.

La ratio di tale disposizione è quella di rimuovere, attraverso la sanzione espulsiva, il lavoratore che, attraverso falsità documentali o dichiarative, ottenga l’instaurazione del rapporto di lavoro o una progressione di carriera, cagionando un danno all’Ente datore di lavoro e ledendo, di conseguenza, il legame di fiducia con il medesimo. Tale illecito, quindi, richiede la presenza di dolo nella condotta: il dichiarante deve volere dichiarare il falso per procurare a sé un vantaggio in danno all’Amministrazione.

Il licenziamento può essere disposto, tuttavia, solo in seguito a procedimento disciplinare e, quindi, previa valutazione di gravità dell’accaduto, dato che la ratio della norma non è quella di perseguire in modo indiscriminato qualsiasi falsità.

La norma, a differenza dei casi regolati dall’art. 127, lett. d), D.P.R. n. 3 del 1957 e dall’art. 75 D.P.R. n. 445 del 2000, non fa alcun riferimento al nesso causale intercorrente tra irregolarità documentale e conseguimento dell’impiego, quanto piuttosto al verificarsi dell’irregolarità “ai fini ed in occasione” dell’instaurazione del rapporto o della progressione di carriera. Pertanto, le falsità documentali o dichiarative, «[…] essendo inidonee a determinare di per sé sole la nullità del contratto, rileveranno solo in quanto, per la loro gravità […] siano tali da comportare, in un giudizio concreto di proporzionalità, la lesione, pur apprezzata ex post, del vincolo fiduciario» (Cass. Civ., sez. lavoro, 11 luglio 2019, n. 18699).

La valutazione della sanzione da infliggere in caso di condotta illecita «deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo» (Cass. Civ., sez. lavoro, 23 agosto 2016, n. 17259).

Per quanto riguarda l’onere della prova, la Corte di Cassazione ha precisato che «[…] grava sul lavoratore l’onere di provare gli elementi che possono giustificare la falsa attestazione, e la sua dipendenza da causa a lui non imputabile, essendo soltanto l’autore delle false dichiarazioni, in grado di provare che la sua condotta è stata il frutto di un incolpevole errore circa il contenuto e la veridicità delle sue dichiarazioni» (Cass. Civ., sez. lavoro, 24 agosto 2016, n. 17304). È onere del lavoratore, quindi, comprovare la propria buona fede.

 

LA RISPOSTA

 

Nel caso in discussione il dipendente aveva precedentemente scontato, presso la stessa Amministrazione, una pena relativa ad una condanna penale di cui l’Amministrazione era stata posta a conoscenza, e proprio questa condanna non è stata più riportata dal dipendente nella dichiarazione sostitutiva di certificazione: in base a tale mancanza il dipendente è stato licenziato.

Il Pubblico Ministero ha ritenuto detta carenza non meritevole di approfondimento processuale ex art. 483 c.p. per carenza di dolo.

L’Amministrazione, invece, ha ritenuto sussistente l’elemento dell’intenzionalità del comportamento del dipendente ed il conseguente danno alla stessa Amministrazione, disponendone il licenziamento.

Il procedimento penale ed il procedimento disciplinare si sono conclusi, quindi, con una valutazione diametralmente opposta circa la natura (dolosa o colposa) dell’elemento soggettivo alla base del comportamento del dipendente.

Infatti, mentre il Pubblico Ministero ha ricondotto il comportamento del ricorrente alla mera colpa, negligenza o leggerezza, non ritendo sussistente il dolo, l’Amministrazione ha ritenuto che il dipendente abbia intenzionalmente e negligentemente omesso di dichiarare i precedenti penali al fine di arrecare un danno all’Amministrazione e, quindi, integrato gli estremi per la sussistenza del dolo.

E’ legittimo che i due procedimenti, penale e disciplinare, abbiano esiti diversi stante la loro diversa natura: il primo è posto a tutela dell’interesse protetto dall’art. 483 c.p., ossia la fede pubblica, il secondo è posto a verifica del corretto comportamento del dipendente in costanza di rapporto di lavoro.

Tuttavia, nel procedimento disciplinare, a maggior ragione nel caso in cui questo venga sospeso in pendenza di procedimento penale per acquisirne gli esiti, deve essere presa in considerazione e attentamente valutata la motivazione resa in sede penale.

Qualora non risulti adeguatamente ponderata la scelta dell’Amministrazione di giungere a conclusioni opposte rispetto a quelle del Pubblico Ministero, e manchi una motivazione puntuale e convincente in merito alla decisione di discostarsi dalle conclusioni assunte nel procedimento penale, il provvedimento avente ad oggetto il licenziamento, stante anche la sua natura pesantemente afflittiva, può senz’altro essere contestato.

Inoltre, va ulteriormente verificata l’applicazione del criterio di proporzionalità tra sanzione e infrazione, di cui all’art. 2016 c.c., che «è una regola valida per tutto il diritto punitivo» (Cass. Civ., sez. lavoro, 26 gennaio 2016, n. 1351): anche la sanzione prevista dall’art. 55 quater D.Lgs. n. 165/2001 deve essere comminata nel rispetto di tale principio.

Il dipendente può far valere tali ragioni unicamente impugnando, nei termini di legge, il licenziamento disciplinare innanzi al Giudice del Lavoro.

[1] Art.  55 ter, comma primo, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

[2] Art.  55 ter, comma secondo, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

[3] Ut supra.

[4] Art.  55 ter, comma terzo, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

Studio Legale Dal Piaz

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