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LA RESPONSABILITA’ PER DANNO AMBIENTALE
Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza in data 01.02.2023 n. 3077

 

Con la sentenza n. 3077 del 01.02.2023, le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione si sono pronunciate su una questione di estremo interesse e attualità, attinente alla tematica della responsabilità per danno ambientale.

Nel caso in esame, la Società ricorrente aveva costruito nel 2001, con gestione fino al 2003, una discarica per lo smaltimento di rifiuti solidi urbani (RSU) presso una cava, utilizzata come sito di stoccaggio dei rifiuti raccolti. A seguito di accertamenti condotti da ARPA per l’ispezione dello stato della falda acquifera, era emerso il superamento dei valori-limite di plurime sostanze contaminanti (con superamento delle CSC: concentrazioni soglia di contaminazione) ed alte concentrazioni nocive. Conseguentemente, il Ministero dell’Ambiente aveva ingiunto alla Società l’attivazione di interventi di messa in sicurezza d’emergenza (m.i.s.e.) delle falde acquifere contaminate, unitamente all’adozione di misure di prevenzione e di bonifica dei suoli e della falda, a pena di interventi sostitutivi ex D.Lgs. 152/2006(Codice dell’Ambiente), con iscrizione di onere reale sull’immobile ed accertamento di danno ambientale.

Tali provvedimenti erano stati impugnati dalla Società ricorrente (prima avanti al TAR e, successivamente innanzi al TSAP: Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche), contestando la violazione di plurime disposizioni del D.Lgs. 152/2006 e, soprattutto, censurando l’estraneità del titolo ad ottemperare (posto che la Società non si riteneva responsabile del danno ambientale) nonché l’omessa dovuta identificazione del responsabile della contaminazione e l’estraneità ad ogni responsabilità, dovendo gli eventi ricondursi a fenomeni d’inquinamento non repentini ma diffusi in zona.

Il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, pur condividendo le conclusioni cui era giunto il Giudice Amministrativo circa il difetto di dimostrazione che il processo d’inquinamento dei terreni fosse iniziato con l’insediamento in loco della Società, concludeva che l’onere di adottare le misure di messa in sicurezza di emergenza (m.i.s.e.) gravasse anche sul proprietario o sul detentore qualificato di un sito, nel contesto di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, prescindendo dall’accertamento del dolo o della colpa. Al riguardo veniva, in particolare, valorizzata la portata del principio “chi inquina paga” del diritto UE, in base al quale è sufficiente la materiale causazione del danno o del pericolo ambientale secondo il criterio di responsabilità oggettiva (pur se non di posizione).

Avverso la predetta sentenza la Società proponeva ricorso in Cassazione. La questione devoluta all’esame delle Sezioni Unite involge “la contestazione nella vicenda del principio ‘chi inquina paga’ di cui alla Direttiva 2004/35/CE e comunque di ogni responsabilità ambientale, anche a titolo oggettivo o prescindendo da una condotta causativa del danno, in capo al proprietario/gestore richiesto di provvedere alla messa in sicurezza di emergenza, in difetto della individuazione del responsabile della potenziale contaminazione”.

IL PRINCIPIO “CHI INQUINA PAGA”

Con i primi due motivi di ricorso, ritenuti fondati dalla Suprema Corte, la Società ricorrente contestava l’applicazione alla vicenda del principio “chi inquina paga” (in base al quale sul proprietario/gestore grava comunque ogni responsabilità di provvedere alla messa in sicurezza di emergenza: m.i.s.e.) e l’erronea mancata individuazione del responsabile della potenziale contaminazione.

Decisiva, secondo il Collegio, è risultata la constatazione secondo cui, nel caso in esame, risultava pacifico che in capo alla Società non fosse intervenuta la dimostrazione, ad opera delle competenti Amministrazioni, di alcuna correlazione causale tra l’attività svolta in situ e, per via di percolazione dei rifiuti trattati, la contaminazione del sottosuolo e della falda acquifera.

A partire da tale accertamento, la Suprema Corte rileva, pertanto, che il titolo che ha giustificato per il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche la legittimità delle prescrizioni adottate dalla P.A., “pur nel formale distanziamento dalla responsabilità da posizione”, è consistito in una peculiare relazione della Società ricorrente con il sito (la proprietà o la detenzione qualificata) secondo il criterio di responsabilità oggettiva ritenuto conforme alla Direttiva 2004/35/CE[1].

In maniera incisiva, le Sezioni Unite contestano tale conclusione, ritenuta non condivisibile avendo riguardo alle acquisizioni prodotte dal dialogo tra giurisprudenza nazionale, amministrativa ed europea in relazione al principio “chi inquina paga”.

Fondamentale nell’impianto motivazionale della pronuncia in esame risulta, invero, l’analisi della disciplina multilivello in tema di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, all’interno della quale si colloca il principio “chi inquina paga” (artt. 1 e 7 Allegato II della Direttiva 2004/35/CE ed art. 191 TFUE).

In base a tale principio “l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale” (considerato 2 della Direttiva 2004/35/CE).

La ratio del principio “chi inquina paga”, come rilevato nell’analisi economica di tale sistema, viene dunque individuata nel fatto che  “imporre al soggetto inquinatore l’obbligo di riparare il danno o, in alternativa, quello di tenere indenne la comunità territoriale che l’abbia evitato o rimosso, significa pertanto addossare (…) le esternalità negative (conseguenti alla produzione o al commercio di beni e servizi) a carico del soggetto cui sia riferibile l’attività, evitando alterazioni di mercato (per qualità dei prodotti e livelli di concorrenza), senza oneri per la collettività ovvero costi assunti in via definitiva dall’ente pubblico; viene così scongiurato ogni scenario di alternativa monetizzazione dell’inquinamento, disincentivato dallo scaricarsi sui soli prezzi, senza altri interventi ed invece declinandosi il principio riassuntivo ‘chi inquina paga’ nella riparazione più diretta del danno ambientale (nei contesti di acque, terreno e biodiversità, i soli dell’art.2 Direttiva), ad opera dell’autore (operatore in attività classificata pericolosa o terzo imputabile ad altro titolo) o, in sua vece e con recupero dei costi, a cura dell’ente pubblico” (par. 12 della sentenza n. 3077 del 01.02.2023).

Se, dunque, appare chiara la definizione e la portata del principio in esame, molto più controverso appare il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale, essendo in dubbio se occorra valorizzare un modello di responsabilità di tipo oggettivo (quantunque la più efficace a tutela dell’ambiente) o se, diversamente, debba prevalere un criterio di imputazione psicologico della relativa condotta. Obiettivo dell’indagine condotta nella sentenza in commento è, dunque, comprendere se l’interpretazione dell’intero assetto normativo italiano, conseguente alla progressiva armonizzazione con la Direttiva 2004/35/CE, sia di per sé idonea a giustificare una responsabilità oggettiva del proprietario in quanto tale.

Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite, dalla lettura sistematica e integrata delle disposizioni del D.Lgs. 152/2006 (Codice dell’Ambiente) e della Direttiva Europea 2004/35/CE non è possibile rinvenire alcun obbligo diretto ed esplicito del proprietario, ove non sia autore della condotta contaminante, ad adottare interventi di messa in sicurezza di emergenza. Particolarmente rilevante, a questo proposito, deve ritenersi il disposto di cui all’art. 311 del D.Lgs. 152/2006, che fissa la responsabilità oggettiva di chi gestisce specifiche attività professionali elencate e quella soggettiva (per dolo o colpa) in capo “a chiunque altro cagioni un danno ambientale”. Inoltre, al ricorrere di specifici presupposti, l’art. 308 esclude, a carico dello stesso operatore esercente un’attività professionale di rilevanza ambientale, i costi delle azioni di precauzione, prevenzione e di ripristino qualora esso dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo o nelle ipotesi di cd. inquinamento diffuso.

L’azione di risarcimento del danno ambientale, inteso come bene pubblico di carattere unitario, costituente autonomo diritto fondamentale di rilievo costituzionale, oggetto di tutela da parte del Giudice Ordinario, diviene così un’azione di reintegrazione in forma specifica, di competenza esclusiva del Ministero dell’Ambiente.

Da un’attenta analisi del quadro normativo e della giurisprudenza europea e nazionale, la Suprema Corte giunge dunque alla conclusione secondo cui “va esclusa una indicazione comunitaria alla riparazione del danno (…) a carico di chi non abbia svolto l’attività professionale di operatore, bensì venga chiamato a rispondervi nella veste di titolare di diritti dominicali o addirittura, come nel caso, con nesso eziologico escluso dallo stesso giudice dell’accertata condotta, non potendo la mera enunciazione di indizi di posizione, per un’attività non classificata dallo stesso d.lgs. n. 152 del 2006 a rischio d’inquinamento, sostituire di per sé la prova del predetto necessario nesso causale” (par. 16 della Sentenza).

RIPARTIZIONE DI RESPONSABILITA’ TRA RESPONSABILE DELL’INQUINAMENTO E PROPRIETARIO INCOLPEVOLE DEL SITO

All’interno dell’analisi, in chiave sistematica, della responsabilità per danno ambientale offerta dalle Sezioni Unite, centrale rilevanza assume la distinzione tra i doveri incombenti sul proprietario incolpevole dell’inquinamento ed il responsabile dell’inquinamento.

Gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto previsto dall’art. 253 del Codice dell’Ambiente in tema di oneri reali e privilegi speciali immobiliari. Il proprietario, in tale quadro, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione idonee a contrastare un evento che abbia creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile, secondo il canone causale civilistico, di verificazione di un danno sanitario o ambientale, al fine di impedire o minimizzare tale minaccia. In tale logica, “le norme contemplanti il proprietario (artt. 245 e 244 cod. amb.) dovrebbero essere rilette come un coinvolgimento per un verso doveroso (….) per l’attuazione, senza distinzione, di tutte le misure di prevenzione (…) e, per altro verso, pienamente partecipativo dell’iter procedimentale preventivo” (par. 25 della sentenza).

Dalla figura del proprietario incolpevole deve essere tenuta nettamente distinta la figura del “ben diverso” responsabile dell’inquinamento, obbligato in modo più stringente e sempre, ai sensi dell’art. 242 del D.Lgs. 152/2006, già nelle prime 24 ore, ad adottare le  misure necessarie di prevenzione, le misure di messa in sicurezza di emergenza (m.i.s.e.)[2] e di bonifica del sito inquinato. L’Amministrazione, dunque, non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di realizzare le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati alle previsioni di cui all’art. 253, in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare, oltre che all’adozione delle sole necessarie misure di prevenzione (par. 32 della sentenza).

Infine, anche alla luce della novellazione degli artt. 9 e 41 della Cost. attuata con la Legge 11 febbraio 2022 n. 1, viene considerato non irragionevole il sistema distributivo della responsabilità ambientale tuttora vigente, imperniato proprio sul perseguimento della riparazione e fino alla estrema attuazione dell’intervento pubblico sostitutivo rispetto all’inerzia o alla non individuazione del responsabile.

Sotto il profilo civilistico, l’inapplicabilità degli artt. 2050 c.c. “Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose” e 2051 c.c. “Danno cagionato da cose in custodia” discende direttamente dalla natura interamente speciale propria del Codice dell’Ambiente; a seguito dell’introduzione della Direttiva 2004/35/CE, come chiarito dalle Sezioni Unite, si è di fronte ad un corpo normativo appositamente dedicato alla tutela dell’illecito ecologico slegato dal sistema regolativo dell’illecito civile ordinario di cui agli artt. 2043 e ss. c.c..

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La sentenza in esame può ritenersi certamente apprezzabile nella misura in cui, valorizzando una lettura sistematica ed integrata della normativa europea e nazionale, nonché gli apporti della giurisprudenza civile, amministrativa ed europea, afferma che il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale, secondo il principio “chi inquina paga”, non può prescindere dall’accertamento del nesso causale tra l’attività posta in essere dall’operatore e l’inquinamento, nonché dall’accertamento del necessario elemento psicologico (colpa o dolo del responsabile dell’inquinamento).

In questa logica, sicuramente condivisibile appare la constatazione secondo cui un quadro altrimenti vago circa l’accertamento di quali siano gli obblighi di bonifica stabiliti per legge o per ordine dei Giudici e delle Amministrazioni costituisce circostanza ostativa ad un corretto funzionamento circolare del sistema delle tutele ambientali (cfr. par. 37 della sentenza).

Al tempo stesso, dal punto di vista operativo, sembra possibile intravedere qualche margine di incertezza in tutti quei casi (pur presi espressamente in considerazione dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento) in cui non sia possibile identificare con precisione il responsabile dell’inquinamento risultando, al contrario, difficile ricostruire la catena causale fra danni e attività di plurimi operatori che si sono succeduti nella gestione di uno stesso sito. Seguendo la soluzione adottata dalle Sezioni Unite, sussiste il rischio che talvolta siano le sole Amministrazioni a dover far fronte ai costi, anche ingenti, del risanamento ambientale.

Ciononostante, la sentenza in esame costituisce un intervento di estremo interesse per la portata sistematica delle sue acquisizioni, condotte alla luce di una disamina integrata della normativa e della giurisprudenza europea e nazionale (civile e amministrativa) in tema di responsabilità per danno ambientale.

 

 

 

 

 

 

 

 

Studio Legale DAL PIAZ

[1]Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale
[2]Nella Sentenza viene evidenziata la distinzione tra misure di prevenzione, definite come “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia” e le misure di sicurezza di emergenza, che includono “ogni intervento immediato o a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza di cui alla lettera t) in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito e a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente”.

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