PIANO ESECUTIVO CONVENZIONATO
IMMOBILE COSTRUITO CON TITOLO EDILIZIO SINGOLO
POSSIBILITÀ DI EDIFICARE ESCLUSIVAMENTE CON PIANO ESECUTIVO CONVENZIONATO (P.E.C.)
LA DOMANDA
In caso di costruzione realizzata con titolo edilizio singolo, non ammissibile per tale intervento, e non tramite P.E.C., l’Amministrazione comunale può esercitare il potere di annullamento in autotutela del titolo edilizio?
Il Piano Esecutivo Convenzionato
Il P.E.C. presuppone la stipulazione di una convenzione fra il privato cittadino, che propone la realizzazione di un intervento edilizio, ed il Comune territorialmente competente.
La stipulazione del P.E.C. è prevista come obbligatoria dallo strumento urbanistico, nel rispetto dei parametri edilizi ivi stabiliti, vigente sul territorio comunale (ad esempio PRGC): in tal caso non è possibile edificare con titolo edilizio singolo. Il P.E.C. viene approvato dal Comune con Deliberazione del Consiglio Comunale.
Nella convenzione vengono, di norma, inserite le seguenti prescrizioni: – previsione della cessione gratuita delle aree per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e delle opere di urbanizzazione secondaria (la cessione può essere sostituita dal pagamento al Comune di una somma corrispondente al valore delle aree);
– corresponsione al Comune degli oneri per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, e di urbanizzazione secondaria che possono essere realizzate dai proprietari a scomputo dell’importo da corrispondere;
– previsione del termine entro il quale devono essere ultimate le opere di urbanizzazione;
– previsione delle garanzie finanziarie per gli obblighi del privato.
L’Autotutela
L’esercizio del potere di annullamento in autotutela da parte del Comune, per gli interventi aventi ad oggetto un titolo edilizio, deve essere ricondotto nell’ambito di applicazione dell’art. 21-nonies della L. n. 241/1990.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 8 del 2017) ha illustrato importanti chiarimenti in merito alla possibilità di ricorrere allo strumento dell’autotutela e dei presupposti su cui fondarne il relativo esercizio[1].
Secondo quanto sancito in tale pronuncia, per valutare la legittimità dell’esercizio del potere di autotutela da parte della P.A., occorre accertare la sussistenza dei seguenti presupposti:
- a) rilevanza dell’interesse al ripristino della legalità in rapporto alla motivazione;
- b) effetto del fattore tempo e tecnica di determinazione del dies a quo;
- c) intensità dell’onere della motivazione;
- d) onere motivazionale in caso di non veritiera prospettazione da parte dell’istante.
- La sussistenza di un rilevante interesse pubblico al ripristino della legalità non può essere fondata sulla semplice violazione della norma, ma deve essere espressamente circostanziata, al fine di dare “sempre maggiore attenzione al valore della certezza delle situazioni giuridiche e alla tendenziale attenuazione dei privilegi riconosciuti all’amministrazione, anche quando agisce con poteri squisitamente autoritativi e nel perseguimento di primarie finalità di interesse pubblico”.
Una simile definizione dell’interesse pubblico al ripristino della legalità, fatto valere dall’Amministrazione, deve essere ancor più rigorosa laddove sia trascorso un rilevante periodo di tempo dall’adozione del provvedimento da annullare poiché, in tal caso, in capo alla Pubblica Amministrazione si viene a costituire uno specifico onere di “valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale”.
- Il decorso di un rilevante periodo di tempo comporta, dunque, l’insorgere di un particolare onere motivazionale in capo all’Amministrazione procedente, la quale dovrà soffermarsi, con il dovuto approfondimento, nel definire l’esistenza di un astratto interesse pubblico e nel circostanziarlo secondo una dimensione, duplice, di attualità e concretezza.
L’Adunanza Plenaria non prende in considerazione la formulazione attualmente in vigore dell’art. 21-nonies: con l’art. 6 della L. n. 124/2015 è stato introdotto un limite di carattere assoluto nella individuazione del termine finale di 18 mesi per l’esercizio dei poteri di autotutela, nell’evidente intento di “assolutizzare” l’elemento della “ragionevolezza” del termine temporale.
Nella nuova formulazione dell’art. 21-nonies il Legislatore ha stabilito che:
- di regola, il potere di autotutela va esercitato entro 18 mesi dall’adozione del provvedimento (comunque tenuto conto “degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge” – comma 1);
- il termine di 18 mesi decorrenti dall’adozione non vale in caso (i) di dichiarazioni sostitutive di certificazione o di atto notorio che siano “false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato” oppure in caso di (ii) di false rappresentazioni dei fatti[2]; in tale ultimo caso, tuttavia, rileva nuovamente la ragionevolezza del termine (cfr. comma 2 e comma 2-bis).
Secondo i Giudici Amministrativi, in particolare, “la nozione di ragionevolezza del termine è strettamente connessa a quella di esigibilità in capo all’amministrazione” ragione per cui il predetto termine tassativo deve essere fatto decorrere, a giudizio del Consiglio di Stato, “dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto”[3].
Inoltre, il Consiglio di Stato, sez. VI, nella sentenza 08 maggio 2019, n. 2974, ha stabilito che, per l’annullamento di provvedimenti di primo grado adottati prima della modifica normativa che ha introdotto il termine di 18 mesi per l’esercizio del potere di autotutela, è fatta comunque salva l’operatività del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria versione dell’articolo 21-nonies della l. n. 241/1990.[4].
- Circa l’onere motivazionale della P.A., i Giudici Amministrativi hanno precisato che grava sulla stessa – a fronte del decorrere di un rilevante lasso di tempo – l’onere di motivare puntualmente in ordine alle ragioni di interesse pubblico, sebbene “tale onere motivazionale non muta il rilievo relativo da riconoscere all’interesse pubblico e la preminenza che deve essere riconosciuta al complesso di interessi e valori sottesi alla disciplina edilizia e urbanistica”.
- Con riferimento alla fattispecie di non veritiera rappresentazione della realtà da parte del destinatario del provvedimento, la pronuncia in esame chiarisce che “l’onere motivazionale richiesto all’amministrazione in sede di adozione dell’atto di ritiro risulterà altresì agevolato nelle ipotesi in cui la non veritiera prospettazione dei fatti rilevanti da parte del soggetto interessato abbia sortito un rilievo determinante per l’adozione dell’atto illegittimo”[5].
Peraltro, se non può essere invocata la sussistenza di un “affidamento legittimo e incolpevole al mantenimento dello status quo ante” da parte del soggetto che ha determinato, attraverso la non veritiera prospettazione delle circostanze rilevanti, l’adozione di un atto illegittimo allo stesso favorevole, non depone a favore del maturare di uno stato di affidamento incolpevole il contegno negligente ed erroneo dell’Amministrazione che non abbia tempestivamente rilevato l’oggettiva falsità delle circostanze rappresentate[6].
Obblighi dell’Amministrazione
Nel caso di immobile edificato con titolo edilizio singolo, e non tramite P.E.C. secondo quanto previsto dallo strumento urbanistico, l’immobile è da qualificarsi come costruito sine titulo.
Pertanto, il Comune è obbligato a procedere ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) che – per le violazioni più gravi della normativa urbanistico-edilizia – ossia per gli interventi in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto a esso, prevede le seguenti fasi:
- il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, notifica al proprietario e al responsabile dell’abuso l’ingiunzione a demolire le opere (o a rimuovere gli effetti degli interventi posti in essere senza la realizzazione di trasformazioni fisiche), indicando l’area che, in caso di inottemperanza all’ordine, sarà acquisita al patrimonio del Comune ai sensi del comma 3 del citato art. 31;
- se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi entro 90 giorni dalla notificazione dell’ingiunzione a demolire, si apre l’eventuale seconda fase della procedura sanzionatoria, contemplata dai commi da 3 a 6 dell’art. 31;
- il bene immobile abusivo e l’area di sedime (nonché quella necessaria, secondo le prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive) sono acquisiti, di diritto e gratuitamente, al patrimonio del Comune (comma 3 dell’art. 31 D.P.R. n. 380/2001).
L’immobile abusivo, una volta entrato a far parte del patrimonio del Comune, dovrebbe essere demolito; in via eccezionale, attraverso una valutazione da effettuarsi caso per caso, può essere conservato. La Corte di Cassazione, sez. III penale, 29 dicembre 2017, n. 57942, ha stabilito che “La delibera comunale che dichiara l’esistenza di un interesse pubblico prevalente sul ripristino dell’assetto urbanistico violato, sottraendo l’opera abusiva al suo normale destino di demolizione previsto per legge, non può fondarsi su valutazioni di carattere generale o riguardanti genericamente più edifici, ma deve dare conto delle specifiche esigenze che giustificano la scelta di conservazione del singolo manufatto, precisamente individuato.”. Infine, l’art. 38[7] del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, per tutelare l’affidamento del privato circa la legittimità del titolo edilizio rilasciato dall’Amministrazione: pertanto, laddove non è possibile procedere alla rimozione dei vizi delle procedure amministrative o alla restituzione in pristino (quindi alla demolizione) dell’immobile, in ragione della natura delle opere realizzate, l’Amministrazione è obbligata ad applicare la sanzione pecuniaria prevista da tale norma.
I Rischi conseguenti all’Autotutela
L’esercizio del potere di annullamento in autotutela può cagionare la reazione del destinatario degli atti amministrativi e, quindi, un concreto rischio di contenzioso (impugnazione dei provvedimenti adottati dal Comune e/o richiesta danni nei confronti dell’Amministrazione).
La Corte di Cassazione[8] ha statuito che – laddove il Comune rilasci un permesso di costruire poi risultato illegittimo, con conseguente condanna del proprietario che ha costruito l’immobile alla demolizione – quando venga accertato che i danni patiti dal privato sono causalmente collegati anche alla condotta di quest’ultimo, si configura l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso, con conseguente applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1 (in tema d’inadempimento delle obbligazioni), richiamato dall’art. 2056 c.c. (in materia di responsabilità aquiliana), che impone la diminuzione del risarcimento secondo la gravità della colpa ascrivibile (al creditore o) al danneggiato.
LA RISPOSTA
E’ dunque possibile l’esercizio del potere di annullamento in autotutela, da parte del Comune, del titolo edilizio singolo (in luogo del P.E.C.) con cui è stato edificato l’immobile.
Tale titolo infatti è afflitto da un vizio non sanabile, che rende l’immobile non alienabile.
La soluzione adottata deve essere, comunque, idonea a garantire un corretto bilanciamento degli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda concreta.
A seguito dell’annullamento del titolo edilizio, il Comune potrà valutare l’opportunità di procedere all’acquisizione dell’immobile (divenuto sine titulo) al proprio patrimonio, magari destinandolo ad attività di pubblico interesse, anche al fine di evitare gli oneri della demolizione qualora non corrisposti dal privato.
Al fine di ridurre al minimo il rischio di soccombenza nell’eventuale contenzioso avviato dal destinatario del provvedimento in autotutela, l’Amministrazione deve comunque motivare adeguatamente, secondo quanto precisato dall’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017, i presupposti fondanti l’esercizio del potere di annullamento, anche attraverso l’effettuazione di attenta ed opportuna valutazione degli interessi pubblici e privati sussistenti nella fattispecie concreta e del relativo bilanciamento.
Inoltre, il Comune dovrà attentamente vagliare le posizioni dei soggetti interni all’Amministrazione che abbiano contribuito a determinare, con comportamento quantomeno negligente, l’affidamento circa la legittimità del titolo edilizio singolo ingiustamente rilasciato, e di tutti i soggetti che, rivestendo un ruolo politico-amministrativo, non abbiano adeguatamente vigilato sul rispetto di tutte le norme violate.
Studio Legale Dal Piaz
[1] La pronuncia ha preso in considerazione la formulazione dell’art. 21-nonies preesistente alla modifica introdotta con l’art. 6 della L. n. 124/2015, con il quale si è sostituito il presupposto del “termine ragionevole” per l’annullamento del titolo con la previsione più stringente del decorso di un periodo massimo di 18 mesi, dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici. Sul tema, anche cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 25 novembre 2019, n.7989.
[2] A favore di una interpretazione restrittiva del requisito indicato: Consiglio di Stato, sez. VI, 27 giugno 2018, n. 3940, secondo cui il ricorso all’annullamento in autotutela è possibile solo laddove non vi sia un concorso di colpa dell’amministrazione.
[3] Conformi: T.A.R. Genova (Liguria), sez. I, 29 maggio 2019, n.501.
[4] Sulla impossibilità di un’applicazione retroattiva del termine di diciotto mesi per l’esercizio del potere di autotutela, cfr. anche Consiglio di Stato, sez. V, 19 gennaio 2017 n. 250; Id., sez. VI, 13 luglio 2017 n. 3462; T.A.R. Firenze (Toscana), sez. III, 15 gennaio 2019, n. 93. Sulla rilevanza a fini interpretativi del termine di diciotto mesi per la verifica sulla “ragionevolezza” del termine di esercizio del potere di autotutela, cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 10 dicembre 2015 n. 5625.
[5] Sul punto, il T.A.R. Venezia (Veneto), sez. II, con sentenza 18 luglio 2019, n. 856, ha precisato che l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia non necessita di espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, perché di interesse generale al rispetto della disciplina urbanistica. Quando l’illegittimità del titolo edilizio dipende dall’erronea rappresentazione della realtà in capo all’Amministrazione procedente causata dal comportamento del richiedente (non importa se doloso o colposo), l’interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento dell’atto sussiste in re ipsa, non opponendosi a ciò posizioni di interesse del privato degne di tutela.
[6] Alle stesse conclusioni è giunto, nuovamente, il Consiglio di Stato, sez. VI, nella sentenza n. 1991 del 2018, nella quale rileva come i “presupposti dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall’originaria illegittimità del provvedimento, dall’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari; l’esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l’Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l’ambito di motivazione esigibile è integrato dall’allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell’interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall’eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l’Amministrazione“.
Nella stessa pronuncia il Consiglio di Stato, richiamando la sentenza n. 341 del 2017, ha precisato che l’interesse pubblico che legittima e giustifica la rimozione d’ufficio di un atto illegittimo deve consistere nell’esigenza che quest’ultimo cessi di produrre i suoi effetti, siccome confliggenti, in concreto, con la protezione attuale di valori pubblici specifici, all’esito di un giudizio comparativo in cui questi ultimi vengono motivatamente giudicati prevalenti rispetto a quello privato alla conservazione dell’utilità prodotta da un atto illegittimo.
[7] Art. 38 (L) – Interventi eseguiti in base a permesso annullato
- In caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. La valutazione dell’agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa.
- L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all’articolo 23, comma 01, in caso di accertamento dell’inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo.
[8] Cass. Civ., sent. 28 febbraio 2017, n. 5063.