Il Consiglio di Stato ammette il diritto al risarcimento del danno cagionato dall’annullamento in autotutela di un permesso di costruire, anche nell’ipotesi in cui il titolo edilizio è stato rilasciato a seguito di un errore provocato dal richiedente.
Il caso.
La vicenda giudiziaria in merito alla quale si è pronunciato il Consiglio di Stato trae origine dal ricorso promosso da due soggetti richiedenti un permesso di costruire che consentiva anche l’installazione di un manufatto in legno presso un’area confinante con un tratto autostradale.
Tuttavia, Autostrade per l’Italia S.p.A. aveva segnalato che il predetto manufatto era stato installato all’interno della fascia di rispetto autostradale: per l’effetto, l’Amministrazione comunale aveva annullato in autotutela il titolo abilitativo, per violazione del vincolo stradale, limitatamente all’opera in questione.
I richiedenti, quindi, adivano il competente Tribunale Amministrativo Regionale per impugnare la decisione del Comune e, in via subordinata, chiedere il risarcimento del danno. Nella sentenza il TAR aveva in parte dichiarato il ricorso inammissibile ed in parte respinto l’impugnazione: in particolare, non veniva accolta l’istanza risarcitoria in quanto “La corresponsabilità dei ricorrenti – con un’esposizione parziale e incompleta della situazione di fatto [non rappresentante la sussistenza del vincolo stradale n.d.r.] – nel rilascio del titolo abilitativo privo di un parere obbligatorio depotenzia la pretesa avanzata, impedendo la configurazione del danno ingiusto”.
I ricorrenti proponevano appello avverso la Sentenza di prime cure dinanzi al Consiglio di Stato, eccependo che la richiesta del permesso di costruire era stata predisposta e presentata dal loro tecnico di fiducia e, quindi, essendo loro privi di specifica competenza nel settore ed in perfetta buona fede, avevano fatto affidamento sulla legittimità della richiesta e quindi del titolo abilitativo.
Inoltre, gli appellanti stigmatizzavano anche la condotta colposamente negligente del Comune il quale, oltre a non aver aggiornato gli elaborati cartografici allegati agli strumenti urbanistici e dai quali il tratto stradale in questione risultava classificato come “Extraurbana principale” di tipo “B” e non come “Autostrada” di tipo “A”, si era limitato a verificare il progetto senza valutare l’effettiva natura del tratto di strada confinante con il lotto interessato dall’intervento.
La Sentenza: Consiglio di Stato, Sez. VI, Sent. n. 9879/2023.
Il Consiglio di Stato, rilevando che il Tribunale Amministrativo Regionale adito, pur avendo ricostruito correttamente la vicenda sottesa al giudizio instaurato, non ha tratto le corrette conseguenze giuridiche, ha riformato la Sentenza gravata rinvenendo i presupposti della decisione nell’applicabilità dei principi del legittimo affidamento e del concorso di colpa del creditore ai sensi dell’art. 1227 c.c..
In particolare, il “legittimo affidamento”, elaborato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, costituisce un principio fondamentale dell’azione amministrativa, che si sostanzia nell’interesse del privato alla tutela di una situazione che si è definita nella realtà giuridica per effetto di atti e comportamenti della Pubblica Amministrazione.
Tale principio risponde alla necessità di contemperare due interessi contrapposti: i) l’interesse vantato dal privato in ordine al mantenimento del vantaggio garantitogli dall’azione amministrativa; ii) l’interesse della Pubblica Amministrazione in merito all’attuazione dei principi di buon andamento e di imparzialità sanciti dall’art. 97 della Costituzione.
In un primo momento, l’ordinamento negava la possibilità per il privato di vantare un legittimo affidamento nei confronti della Pubblica Amministrazione che, se disatteso, gli garantisse persino una tutela risarcitoria.
In seguito, tale iniziale impostazione è mutata, allorquando è stata ammessa la possibilità, per la Pubblica Amministrazione, di utilizzare anche strumenti di natura privatistica ed agire jure privatorum, spogliandosi, quindi, della discrezionalità che caratterizza la sua azione e ponendosi allo stesso livello del singolo individuo.
Tale principio ha trovato applicazione mediante un lungo processo evolutivo svolto dalla giurisprudenza sovranazionale, che ha portato il legittimo affidamento ad essere considerato un principio cardine del diritto comunitario, quantunque non espressamente contemplato nei Trattati dell’Unione Europea.
Nel nostro ordinamento, invece, pur essendo privo di copertura normativa, il fondamento del principio del legittimo affidamento viene rinvenuto nella clausola generale di buona fede, intesa in senso oggettivo e consistente nel dovere dell’Amministrazione Pubblica di tenere un comportamento leale e collaborativo nei confronti degli altri individui in caso di compimento di atti giuridicamente rilevanti.
In merito, l’art. 1227, comma 1, c.c., ai sensi del quale “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”, regola l’efficienza causale del fatto colposo del soggetto leso, “parametrando” le conseguenze sulla determinazione dell’entità del risarcimento.
In precedenza, si riteneva che l’art. 1227 c.c. fosse espressione del principio di autoresponsabilità, che imponeva ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza, allo scopo di prevenire eventuali danni.
La più recente giurisprudenza[1], invece, ha ravvisato nella norma in parola un corollario del principio di causalità: ne deriva il principio per il quale non può essere imputato al danneggiante quella parte di danno a lui non causalmente imputabile.
Tale norma, infatti, trova il suo inquadramento nel principio causalistico: se l’evento lesivo è conseguenza del comportamento colposo del danneggiato, il nesso di causalità risulta interrotto con le possibili cause precedenti; al contrario, se il danneggiato ha solo parzialmente dato causa al verificarsi dell’evento dannoso, la sua responsabilità materiale deve essere proporzionalmente ridotta.
In applicazione del principio del legittimo affidamento, seppur non espressamente menzionato, e dell’art. 1227 c.c., la cui previsione è stata ripresa e sviluppata nell’art. 30, comma 3 ultimo capoverso, c.p.a. (“Nel determinare il risarcimento del danno il giudice valuta tutte le circostanze di fatto ed il comportamento complessivo delle parti e, comunque esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza anche attraverso l’esperimento dei mezzi di tutela previsti”), con la Sentenza n. 9879/2023 il Consiglio di Stato ha quindi affermato la concorrente responsabilità del Comune in ordine al danno patito dai titolari del titolo edilizio poi annullato.
Il Collegio, infatti, ha evidenziato che il Comune “non poteva ignorare l’esistenza del vincolo, e anzi sicuramente non la ignorava”, stante anche la sussistenza di atti deliberativi comunali che stabilivano la correzione degli elaborati grafici allegati allo strumento urbanistico, i quali classificavano erroneamente il tratto autostradale confinante con il lotto d’intervento.
L’Amministrazione comunale, dunque, ha omesso di compiere un’adeguata attività istruttoria prima di rilasciare il titolo edilizio in favore dei richiedenti, i quali hanno riposto il loro legittimo affidamento nella correttezza dell’operato comunale nel verificare la sussistenza di tutti i presupposti per la concessione del permesso di costruire: il comportamento dell’Amministrazione comunale, quindi, è risultato viziato da un inescusabile errore integrando l’elemento psicologico della colpa.
Inoltre, il Consiglio di Stato ha sottolineato che il permesso di costruire era corredato dall’asseverazione del progettista incaricato, il quale aveva attestato la conformità del manufatto alla normativa edilizia urbanistica in vigore, comprendente anche la dichiarazione di assenza di vincoli impeditivi dell’edificazione.
A fronte di tale circostanza, pertanto, il Collegio ha condannato il Comune “ex art. 1227, comma 1, cod. civ., a risarcire la metà del danno subito” patito dai titolari del permesso di costruire annullato, posto che l’errore dell’Amministrazione comunale è stato comunque indotto dal comportamento corresponsabile dei richiedenti, tramite il proprio tecnico, i quali avevano dichiarato la conformità dell’intervento alla normativa urbanistico-edilizia.
Segnatamente, in merito all’imputazione in capo ai richiedenti dell’errore commesso dal loro tecnico, il Consiglio di Stato ha richiamato l’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale “Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo”.
Studio Legale DAL PIAZ
[1]Cass. Civ., Sez. III, Ord. 7 maggio 2021, n. 12166